venerdì 29 ottobre 2010

Il vecchietto che osserva gli scavi...


   Finchè non lo vedi, non ci credi! Deambula lentamente, trascinando i piedi, lo sguardo aquilino e vigile, nascosto da occhiali in formato "fondi di bottiglia". Le braccia incrociate dietro la schiena, la mano libera che stringe il quotidiano fresco di stampa, l'altra che si aggrappa al polso per non scivolare sotto il pesante fardello di tanti anni sulle spalle. L'anziana figura non conosce stagioni, cerca continuamente una parola da scambiare, un consiglio esperto e disinteressato da dispensare ai più giovani. Stretto nel cappotto quando fa freddo, in maniche di camicia (rigorosamente a scacchi) quando il tempo e gli acciacchi glielo permettono, il "vecchietto che osserva gli scavi" è un tipo buffo e singolare, un cittadino del mondo, un evergreen che non passa mai di moda. Molti comici lo canzonano scimmiottandone i comportamenti, ma non tutti probabilmente hanno avuto la fortuna di incontrarlo veramente.
   A me è capitato la scorsa settimana. Seppure in apparenza confuso nel frenetico formicaio di gente che va e viene nel centro di Vicenza, l'ho incrociato all'altezza del park Verdi. Il mio "vecchietto che osserva gli scavi" portava un cappellino blu da pescatore, calato con forza sulle orecchie che si aprivano  a sventola in una sorta di molle appendice della tesa. Indossava uno stretto impermeabile beige con tasconi (vi ricordate l'Ispettore Gadget?), perfettamente abbinato a pantaloni di velluto marroni e a scarpe di cuoio pesanti. 
   Ciabattava con flemma, ma con l'aria di saperne davvero una più del diavolo. Una rapida controllatina allo stato del cantiere, una breve sosta per esaminare accigliato qualche particolare sporgendosi col busto in avanti, e poi via, borbottando qualcosa e scuotendo la testa.
Pochi secondi mi sono bastati per capire una cosa importante: un giorno vorrei diventare anch'io un "vecchietto che osserva gli scavi". Primo, perché vorrà dire che Madre Natura mi avrà concesso la fortuna di invecchiare; secondo, perché forse, anch'io, avrò ancora qualcosa da dire e da fare nel formicaio della vita che verrà. Amen.       

mercoledì 27 ottobre 2010

Scrivere per vivere?

Gironzolando nei forum mi sono imbattuto in un post davvero interessante. Una ragazza chiedeva lumi in merito a ciò che potesse fare da grande. Il concetto, in soldoni, era il seguente: "ciao, mi piace scrivere, cosa potrei fare nella vita? La copy? L'editor? La giornalista? Aiutatemi, grazie!".
Ora, gli illustrissimi guru della penna (d'oca o a sfera) hanno acceso un dibattito, vivace e articolato, che ha insinuato anche nel mio acerbo cervelletto un quesito esistenziale non indifferente.
Si può scrivere per vivere? O meglio, ci si può davvero guadagnare da vivere scrivendo?
La risposta, come spesso accade, va ricercata nelle sfumature di un concetto più che nella sua univocità.
Che significato diamo al "mestiere di scrivere"?
Una cosa è certa. Dalla mattina alla sera non si diventa acclamati autori di best sellers. Se l'obiettivo è fare breccia nei cuori di milioni di lettori e nei portafogli delle case editrici, l'unica cosa che posso augurarvi una buona dose di fortuna. Troverete moltissime case editrici che apprezzano il vostro lavoro, e vi chiederanno dei soldi per pubblicarlo. Poche che vi aiuteranno veramente. Lo so per esperienze altrui, non perché ci sono passato in prima persona.
Se volete lavorare nel mondo della pubblicità (ed è questo il mio caso), forse avete qualche possibilità in più. Ma non esiste un'effettiva ricetta del successo. Credetemi, l'ho cercata spesso anch'io, ma ahimè, non l'ho mai trovata. Probabilmente gli ingredienti giusti sono il lavoro, lo studio, la dedizione e la passione. Mescolateli, esagerate con le dosi. E leggete tanto, non dimenticatelo. In ogni libro, in ogni articolo, perfino nei titoli dei telegiornali, c'è sempre qualcosa da imparare. Fosse anche imparare cosa NON si deve fare per scrivere bene.
Vi sarete accorti che non ho ancora dato risposta alla domanda iniziale. Giro in largo, ma non arrivo al punto. Avete ragione.
Si può scrivere per vivere? Non lo so. Ci spero. Ci spero tanto. E lo voglio con tutto me stesso.
Ma se non sarà questo il mio futuro, qualcos'altro sarà. Punto.

traslOCO

   Una buona parte della mia vita, circa 19 anni per la precisione, l'ho vissuta sempre nella stessa casa. Estati, autunni, inverni e primavere. Il ciclo delle stagioni (e anche delle mezze stagioni, per chi ci è particolarmente affezionato), sembrava destinato a continuare il suo corso. Ad iniziare e finire silenziosamente, in punta di piedi, come da copione.
   Ma il trasloco, si sa, è sempre in agguato. Ti attende paziente, con il ghigno compiaciuto del bullo a ricreazione, che aspetta dietro l'angolo e non vede l'ora di sgambettarti mentre corri pacioso e beato, incurante del pericolo.
   Attaccato com'ero al velcro delle mie decennali abitudini (mamma lava, stira, pulisce fa da mangiare, papà paga le bollette, la spesa e la tv satellitare), sono stato catapultato improvvisamente in un universo nuovo, pieno di nebulose, dai contorni indefiniti. E allora via, con gli allacciamenti di acqua, luce e gas, sballottato a destra a manca tra gli "allegati H e I" e le firme della "copia a noi destinata" (ma non indicata). Giorni di file chilometriche agli sportelli comunali, di appuntamenti fissati e rimandati con idraulici e elettricisti, di continue telefonate e odiose vocine che mi ricordavano che "i nostri operatori non sono al momento disponibili".
   Mi sono sentito molto animale, nelle ultime due settimane: leone in gabbia, coniglio atterrito, serpente a sonagli, ma soprattutto, per inesperienza ed errori commessi, tanto OCO. E mi si permetta il tocco dialettale in chiusura.